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Canto 13 Purgatorio riassunto e spiegazione

Il canto 13 del Purgatorio di Dante Alighieri si svolge sulla seconda cornice. Qui scontano la loro pena gli invidiosi, cioè gli spiriti di coloro che guardarono con odio la felicità altrui.

Come vengono puniti gli invidiosi nel Purgatorio?

Per contrappasso, gli invidiosi sono coperti dal cilicio (il saio grezzo e ruvido indossato dai penitenti) e hanno gli occhi cuciti con il fil di ferro. Come in vita non furono solidali con gli altri, ora stanno seduti con le spalle poggiate contro la parete del monte e si sorreggono a vicenda. Ascoltano esempi di carità premiata e di invidia punita gridati da voci invisibili, e recitano le litanie dei santi.

Cosa succede nel canto 13 Purgatorio?

Il canto 13 del Purgatorio è uno dei più lunghi dell’intera Divina Commedia. È suddiviso quasi esattamente in due parti. La prima parte (vv. 1-72) è dedicata alla descrizione della seconda cornice del Purgatorio; la seconda parte (vv. 73-154) è invece dedicata interamente all’incontro con Sapia gentildonna senese, una delle rare donne interlocutrici di Dante. Tutto il canto è pervaso dal sentimento di carità, evidente contrappasso dell’invidia, e che si manifesta anche nel reciproco sostenersi delle anime.

Canto 13 Purgatorio riassunto

La seconda cornice del Purgatorio vv. 1-42

Dante e Virgilio sono in cima alla scala che congiunge la prima alla seconda cornice. Ora i due poeti si trovano su un nuovo pianoro, circolare come il primo ma di diametro minore. Qui non vi sono figure scolpite sulla roccia: questa è liscia e cupa. Non si vede nessuno a cui chiedere come proseguire il cammino, quindi Virgilio rivolge una preghiera al Sole (figura della luce di Dio) affinché indichi con i suoi raggi i percorsi da seguire; quindi s’incammina verso destra.

I due poeti hanno percorso circa un miglio, quando sentono volare spiriti invisibili, che gridano esempi di carità, virtù contraria all’invidia. Il primo spirito invisibile ripete le parole pronunciate dalla Vergine Maria (Vinum non habent), quando alle nozze di Cana, accortasi che il vino era finito, lo comunicò a Gesù affinché provvedesse (l’episodio si trova nel Vangelo di Giovanni 2, 1-11). La seconda voce pronuncia il secondo esempio di carità, che riguarda i due amici Oreste, figlio di Agamennone, e Pilade, suo amico fraterno. Pilade finge di essere Oreste, dicendo “Io sono Oreste”, per salvare l’amico dalla morte; Oreste, a sua volta, svela la propria identità. Il terzo esempio di carità, “Amate coloro da cui avete ricevuto del male” è tratto dai Vangeli (Matteo 5, 43-44), ed è uno dei principali comandamenti di Cristo: “amare i propri nemici”.

Virgilio spiega a Dante che in questa cornice si punisce il peccato dell’invidia, per questo le anime sono esortate da esempi di carità ed altruismo.

La pena degli invidiosi (43-84)

Virgilio invita Dante a osservare bene le anime addossate sulla parete della roccia. Quella vista si rivela straziante: le ombre, che pregano pronunciando le litanie dei santi, hanno mantelli dello stesso colore scuro della roccia e indossano miseri panni, appoggiandosi l’una alle spalle dell’altra. Dante li paragona a dei mendicanti ciechi, che chiedono l’elemosina davanti alla chiesa. Questi penitenti non vedono perché hanno le palpebre cucite con il fil di ferro, ma dai loro occhi scorrono ugualmente abbondanti lacrime.

L’incontro con Sapia vv. 85-154

Dante con il consenso di Virgilio, chiede agli spiriti degli invidiosi se tra loro vi sia qualche anima italiana. Un’anima subito gli risponde che nell’aldilà tutti gli spiriti hanno per patria il regno di Dio (il Paradiso). Dante le si avvicina e la prega di rendere noto il nome o la città. Inizia così una lunga confessione: in vita l’anima era senese e si chiamava Sapia, benché non fosse saggia, dal momento che godeva del male altrui più ancora della fortuna propria. La sua invidia si spinse a tal punto che in occasione della battaglia dei suoi concittadini contro Firenze a Colle Val d’Elsa (nel 1269), ella pregò Dio che fossero sconfitti, esultando quando ciò avvenne e gridando a Dio che non lo temeva più. In punto di morte chiese perdono, e sarebbe ancora nell’Antipurgatorio tra i negligenti se le pietose preghiere di Pier Pettinaio, francescano senese venerato come santo per l’onestà e la bontà della sua condotta, non vi avessero abbreviato la sua permanenza.

Sapia chiede poi a Dante chi egli sia; il poeta le rivela che egli è vivo e ammette il proprio peccato di invidia, aggiungendo di temere ben di più la pena dei superbi, per la quale si sente già il peso del masso sulle spalle. Infine gli chiede di pregare per lei e di restituirle buona fama presso i suoi parenti, che il poeta potrà trovare tra quegli sciocchi cittadini senesi di cui è nota la vanità.

 

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