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La Voce e i Vociani: poeti e tematiche

La maggior parte degli scrittori Vociani proveniva dall’esperienza della rivista La Voce.
La rivista La Voce nasce nel dicembre 1908 a Firenze per iniziativa di Giuseppe Prezzolini che la dirige sino alla fine del 1914; dal 1914 al 1916 (anno in cui cessò) da Giuseppe De Robertis, che le diede un carattere decisamente letterario.

Grazie alla preziosa collaborazione di studiosi come Gaetano Salvemini (1873-1957) e  Giovanni Amendola (1882-1926), nel periodico furono trattati, con spregiudicata e penetrante analisi, problemi di grande attualità, come il decentramento amministrativo, la riforma del codice della famiglia, il divorzio, il suffragio universale maschile (ma aprì anche una discussione sulla possibilità di allargare il diritto di voto alle donne). Aprì dibattiti e tenne convegni sulla questione meridionale, sull’irredentismo, sulla scuola, sulla moderna psicologia (sulle sue colonne si parlò per la prima volta di Freud, seppure senza capirne pienamente l’importanza).

La rivista si sforzò di individuare e di organizzare il proprio pubblico, raggiungendolo anche nelle province, nei piccoli centri, nelle campagne, sollecitando inchieste e aprendo un dialogo continuo con i lettori. La Voce mirò, insomma, a creare un movimento d’opinione, con l’intento di conquistare alle proprie idee la piccola borghesia intellettuale e il quadro intermedio della cosiddetta classe dirigente e, in prospettiva, di creare un’alternativa, in termini anzitutto di personale politico, al gruppo giolittiano al potere.

Nel 1914, scoppiata la Prima guerra mondiale, Prezzolini lasciò la direzione della rivista, affidandola a Giuseppe De Robertis. In quest’ultima fase (1914-16) La Voce assunse un indirizzo decisamente letterario e artistico. Abbandonata la lotta etico-politica, il periodico ospitò infatti pagine di scrittori e di poeti che si collocano con grande spicco tra le voci più alte e qualificanti della stagione letteraria del primo Novecento.

Tra i principali scrittori vociani si annovera Clemente Rebora (1885-1957). La guerra rappresentò per lui una tragica esperienza: il disgusto e lo sgomento per le stragi, gli orrori, i patimenti a cui milioni di esseri umani erano fatalmente costretti, gli proponevano con angoscioso assillo il problema dell’uomo contemporaneo, solo, privo di ogni fede e di ogni certezza, e costretto a misurarsi senza speranza con una realtà ostile, segnata di iniquità, di ingiustizie, di miserie. Dopo un periodo di intensa ricerca interiore e di operosa solidarietà nei confronti dei poveri e dei diseredati, Rebora approdò a una soluzione religiosa, abbracciando il cattolicesimo, ed entrando, nel 1931, nell’istituto di Carità a Milano dove prese i voti nel 1936. Morì nel 1957.
I Frammenti lirici e i Canti anonimi (1922) rappresentano le prove più alte della poesia di Rebora. Il rapporto sofferto e tormentato con la realtà si esprime attraverso un linguaggio crudo, che mira a denunciare l’alienazione della vita cittadina, l’orrore della guerra, la meschinità e l’egoismo della società moderna.

Il senso di estraneità nei confronti di un mondo privo di senso e di speranza è il tema dominante della poesia di Camillo Sbarbaro (1888-1967). Con i Vociani Sbarbaro ha in comune la disposizione all’inchiesta interiore, l’avversione per gli schemi e le convenzioni sociali, il sentimento dell’inquietudine e del disagio di vivere, la tendenza a tradurre e riscattare nella parola la pena, lo sbigottimento, la ribellione di fronte alla consapevolezza del proprio destino. Ma a differenza di altri Vociani non si cimenta con i grandi problemi dell’esistenza, non tenta ardite speculazioni filosofiche, limita invece il proprio orizzonte di ricerca e di trascrizione lirica al piccolo mondo delle proprie esperienze umane e dei propri sentimenti, distaccandosi dalle cose, dalle attrattive e dalle ingannevoli seduzioni del vivere quotidiano, con ferma «rassegnazione». Il linguaggio è essenziale e al tempo stesso limpido, e talvolta quasi dimesso.

Un analogo senso di estraneità rispetto alla società caratterizza la poesia di Dino Campana (1885-1932). La sua vita è contrassegnata da un continuo, avventuroso e disperato vagabondaggio per l’Europa (compì anche un viaggio nell’America meridionale) e da un progressivo squilibrio psichico che lo portò definitivamente al ricovero in un ospedale dove stette 14 anni, fino alla morte.
Nel suo vagabondare (che lo costrinse a fare i più diversi mestieri per vivere) Campana venne a contatto con diverse esperienze culturali che in varia misura influirono sulla sua cultura e sulla sua poesia: dalla filosofia di Nietzsche, considerato dal poeta un maestro esemplare, alla pittura, alla poesia francese (particolare la sua ammirazione per Rimbaud), al futurismo di Giovanni Papini e Ardengo Soffici.
La poesia di Dino Campana è rappresentata dalla raccolta intitolata Canti orfici (1914), oltre alcune composizioni che furono raccolte e pubblicate dopo la sua morte.

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