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Manfredi di Sicilia figura storica e personaggio dantesco

Manfredi di Sicilia o Manfredi di Svevia o Manfredi di Hohenstaufen, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia e di Bianca Lancia, nella realtà storica e nel Canto 3 del Purgatorio di Dante Alighieri.

Manfredi di Sicilia o Manfredi di Svevia nella realtà storica

Manfredi di Sicilia nacque a Venosa nel 1232. Era figlio naturale di Federico II di Svevia e Bianca Lancia. Alla morte del padre, avvenuta nel 1250, divenne reggente del regno di Sicilia, al posto del legittimo successore, Corrado IV di Svevia, suo fratellastro, che si trovava in Germania.

Morto Corrado IV (1254), la corona sarebbe dovuta andare al figlio Corradino, ma Manfredi fece diffondere la notizia della morte di quest’ultimo e si fece incoronare a Palermo il 10 agosto 1258.

La Chiesa lo considerava a tutti gli effetti un usurpatore, perciò fu scomunicato. Inoltre egli tentò di riunire sotto il suo comando tutte le forze ghibelline italiane fedeli all’imperatore. Papa Urbano IV, per contrastarlo, chiese l’intervento di Carlo d’Angiò, fratello di Luigi IX re di Francia, decisione che fu confermata dal suo successore Clemente IV. Quest’ultimo proclamò Carlo d’Angiò (che già governava la Provenza e il Piemonte meridionale) re di Sicilia. Il nuovo re si impegnava a non pretendere la corona imperiale, a pagare un contributo annuo trenta volte superiore a quello versato dagli Svevi e a esentare il clero dalle imposte.

Il 26 febbraio 1266 Carlo d’Angiò affrontò Manfredi (abbandonato via via dai suoi alleati) nella battaglia di Benevento: l’esercito svevo venne sconfitto e Manfredi rimase ucciso.

La tradizione vuole che Manfredi, ferito a morte, negli ultimi istanti della sua vita chiedesse perdono per i propri peccati, trovando così la salvezza eterna.

Dante innesta tale leggenda nel suo poema e fa raccontare a Manfredi di Sicilia il momento in cui invocò la misericordia di Dio e, soprattutto, l’accanimento con cui il papa Clemente IV e il vescovo di Cosenza perseguitarono le sue spoglie, facendole prelevare dal luogo in cui Carlo d’Angiò aveva dato loro sepoltura, per poi lasciarle insepolte al di fuori del regno, lungo il fiume Garigliano, dove il vescovo di Cosenza le fece trasportare a ceri spenti.

Manfredi di Sicilia nel Purgatorio, Canto terzo, vv. 103-132: il testo

E un di loro incominciò: «Chiunque
tu se’, così andando volgi ‘l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque».

Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.

Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: «Or vedi»;
e mostrommi una piaga a sommo ‘l petto.

Poi sorridendo disse: «Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti prego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ‘l vero a lei, s’altro si dice.

Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.

Orribil furono li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.

Se ‘l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo il Verde,
dov’ e’ le trasmutò a lume spento.

Manfredi di Sicilia nel Purgatorio, Canto terzo, vv. 103-132: la parafrasi

E uno di loro [degli spiriti] incominciò a parlare: «Chiunque tu sia, pur continuando a camminare, volgi il viso verso di me: cerca di ricordare se mai mi vedesti in qualche luogo sulla terra».
Io mi voltai verso di lui e lo guardai con attenzione: era biondo e bello e di nobile aspetto, ma un colpo gli aveva spaccato il sopracciglio.

Quando io ebbi cortesemente negato di averlo mai visto, egli disse: «Ora guarda»; e mi mostrò una ferita nella parte alta del petto. Poi disse sorridendo: «Io sono Manfredi, nipote dell’imperatrice Costanza [Costanza d’Altavilla]; per cui io ti prego, quando ritorni, di andare dalla mia bella figlia, madre dei sovrani di Sicilia e di Aragona, e dire a lei la verità, nel caso vengano dette altre cose [sul mio conto]. Dopo che ebbi il corpo trafitto da due ferite mortali, mi rivolsi, piangendo, a colui che perdona volentieri. I miei peccati furono orribili; ma la bontà infinita [di Dio] ha braccia così grandi che accoglie tutto ciò che le si rivolge. Se il vescovo di Cosenza, che allora fu mandato dal papa Clemente a darmi la caccia, avesse ben considerato questo aspetto [misericordioso] di Dio, le ossa del mio corpo sarebbero ancora all’estremità del ponte presso Benevento, custodite dal pesante mucchio di pietre. Ore le bagna la pioggia e il vento le spinge fuori dal regno [di Napoli], quasi lungo il [fiume] Verde, dove egli [il vescovo di Cosenza] le fece trasferire con i ceri spenti [com’era d’uso con i cadaveri degli eretici e degli scomunicati]».

Manfredi di Sicilia nel Purgatorio, Canto terzo, vv. 103-132: il commento

Usciti dall’Inferno, Dante e Virgilio giungono ai piedi della montagna del Purgatorio, dove scorgono una moltitudine di ombre che avanza lentamente.

Sono le anime di coloro che si pentirono dei loro peccati soltanto negli ultimi istanti della loro vita e per questo sono condannate a scontare le pene purificatrici sostando per qualche tempo ai piedi del monte, prima di poterlo risalire.

Sono distinte in diverse schiere, e quella che ora si è fatta avanti incontro ai due poeti è di morti scomunicati, perdonati sì dalla misericordia di Dio, ma esclusi dalla Grazia della Chiesa: essi debbono errare ai piedi della montagna trenta volte il tempo che è durata la scomunica.

Fra essi, Dante vede Manfredi di Sicilia, figlio di Federico II di Svevia, eretico e scomunicato dai papi: ferito a morte nella battaglia di Benevento, ha fatto in tempo a invocare in extremis e ad ottenere il perdono dal cielo; senonché l’ira del papa Clemente IV si è accanita anche sul morto nemico, dando ordine al vescovo di Cosenza di dissotterrare le ossa e disperderle alla pioggia e al vento.

La maledizione dei ministri della Chiesa, però, non esclude la possibilità della salvezza: la misericordia di Dio verso i peccatori è inesauribile, bisogna quindi abbandonarsi fiduciosi agli imperscrutabili disegni della Provvidenza.

 

 

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