Strumenti di Tortura contro eretici e streghe

Strumenti di tortura contro eretici e streghe – Dal Basso Medioevo a tutto il XVII secolo, la Chiesa operò una vera e propria lotta all’eresia, perché ritenuta molto pericolosa, in quanto si professavano “false verità” che mettevano in discussione l’autorità della Chiesa ufficiale, alcuni dogmi fondamentali della fede, l’infallibilità del Papa e spesso diffondevano tra il popolo pratiche religiose non autorizzate.

Il IV Concilio Lateranense (1215) ribadì con vigore le verità di fede messe in dubbio dalle eresie e proclamò che la lotta contro gli eretici era dovere di ogni cristiano, esattamente come lo era quella contro gli infedeli (per mezzo delle crociate). Il concilio coinvolgeva inoltre direttamente in questa lotta i sovrani, i principi e tutti i signori della Cristianità, minacciando coloro che si fossero rifiutati, o si fossero mostrati troppo concilianti con gli eretici, non solo di sanzioni spirituali (come la scomunica) ma anche di pesanti ritorsioni di carattere materiale: l’occupazione dei loro territori, la liberazione dei loro vassalli dal vincolo di fedeltà, la confisca dei beni.

Affini agli eretici furono considerati i maghi, i negromanti (indovini) e le streghe, perché ritenuti manifestazioni viventi del diavolo e i suoi strumenti.
I sospettati di eresia e di “magia nera” venivano imprigionati, per poi essere deferiti al tribunale dell’Inquisizione, una istituzione giudiziaria (affidata dapprima ai domenicani e in seguito ai gesuiti) incaricata di processare e condannare i sospetti.

In genere una giuria, composta da rappresentanti del clero e da laici, assisteva gli inquisitori durante il processo e nella formulazione del verdetto. La parola di due testimoni era sufficiente quale prova di colpevolezza.

La condanna era proporzionale alla gravità del peccato, all’importanza dell’accusato e alle “prove” contro di lui. Essa prevedeva pene che andavano dal divieto di ricevere i sacramenti, alla scomunica (la più severa censura ecclesiastica), fino alla condanna a essere bruciato vivo sul rogo nella pubblica piazza, alla presenza della folla, che spesso vi partecipava come a uno spettacolo (un nome basta per tutti: il filosofo cattolico Giordano Bruno, processato a Roma dal tribunale dell’Inquisizione e bruciato in piazza Campo dei Fiori).

Il processo era solitamente preceduto da pratiche di tortura, affidate a personale laico “specializzato”, che prevedevano terribili forme di supplizio corporale, spesso protratte per ore, fino alla perdita dei sensi dell’accusato.

Gli strumenti di tortura più comuni erano:

  • i «tratti di corda», l’inquisito, con le mani legate dietro la schiena, veniva sollevato più volte in aria per mezzo di un sistema di carrucole e quindi lasciato cadere;
  • il «cavalletto», un congegno sul quale si stiravano le membra del torturato;
  • il «fuoco», si ungevano i piedi del torturato per ravvicinarli poi a una fonte di calore;
  • la «stanghetta», un sistema di contenzione che comprimeva polsi e caviglie;
  • le «cannette», si stringevano con appositi strumenti le dita giunte del tormentato;
  • la «veglia», s’impediva al torturato, legato a un sedile, di addormentarsi per un periodo che poteva arrivare a due giorni;
  • la «bacchetta», uno staffile, che veniva usato anche nei confronti dei minorenni, non però prima del nono anno di età.

L’imputato che avesse resistito al dolore causato dagli strumenti di tortura senza ritrattare era considerato veridico; l’imputato che vi avesse resistito senza confessare era dichiarato innocente.
I notai erano chiamati a registrare con precisione carattere e durata dei singoli tipi di tortura; dopo la quale, si chiedeva all’imputato confesso di confermare la sua confessione, nel qual caso si parlava di confessione spontanea.

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