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Promessi Sposi capitolo 13 Riassunto

Promessi Sposi capitolo 13 Riassunto dettagliato, analisi e commento degli avvenimenti, luoghi e personaggi del celebre romanzo di Alessandro Manzoni.

Promessi Sposi capitolo 13 Riassunto: La folla assale la casa del vicario

Il capitolo 13 si apre proponendo, al centro della scena, il vicario di provvisione. Egli  è in ansia a causa del saccheggio ai forni (leggi Promessi Sposi capitolo 12 Riassunto) e faticosamente digerisce un pranzo consumato senza appetito.

Qualcuno arriva con la notizia che la folla (paragonata ad una «burrasca») si sta avvicinando, allora i servitori sbarrano e rinforzano le porte, mentre il «meschino» si rifugia in soffitta.

Renzo di sua iniziativa («cacciatovisi deliberatamente»), a poco a poco, si lascia coinvolgere e si schiera contro coloro che vogliono il «sangue» («e quantunque… fosse persuasissimo che il vicario era la cagion principale della fame, il nemico de’ poveri, pure, avendo… sentita… la volontà di fare ogni sforzo per salvarlo, s’era subito proposto d’aiutar anche lui un’opera tale;»).

La folla si accanisce («in cento modi») per abbattere la porta. Intanto giunge l’ufficiale con i soldati: si trovano di fronte ad una «accozzaglia di gente». L’ufficiale non sa che decisione prendere; passa in rassegna le varie possibilità, come «far fuoco sopra quella ciurma», ma non ne ha l’autorizzazione, oppure far proseguire i soldati tra la folla, ma c’è il rischio di lasciarli in balìa della folla irritata.
In mezzo alla folla c’è un anziano, il cui aspetto lascia intuire un’esistenza indegna e malvagia («un vecchio mal vissuto… due occhi affossati e infocati… un sogghigno di compiacenza diabolica,… le mani alzate sopra una canizie vituperosa»), agita chiodi e martello e proclama di voler attaccare il vicario ad un battente della sua porta, dopo che è stato ammazzato («ammazzato che fosse»).

Renzo «inorridito a quelle parole» interviene per placare gli animi («assassinare un cristiano? Come volete che Dio ci dia del pane, se facciamo di queste atrocità? Ci manderà de’ fulmini e non del pane!»), ma la folla, con molta facilità, ingigantisce le sue parole e lo identifica come spia e addirittura in quanto il vicario stesso, travestito da contadino per poter fuggire («un servitore del vicario. Una spia. Il vicario travestito da contadino, che scappa»).

Renzo riesce ad allontanarsi grazie alla confusione che si crea all’arrivo di coloro che portano una scala da utilizzare per entrare nella casa del vicario. Uno dei portatori è paragonato ad un bue: come questo, che si porta il peso del giogo sulle spalle per trascinare il carro, così uno dei due all’estremità della scala emette dei versi simili a muggiti («oppresso come sotto un giogo scosso, mugghiava»).

Promessi Sposi capitolo 13 Riassunto: Arriva il gran cancelliere Ferrer, preleva il vicario dalla casa assediata e lo conduce al castello. Renzo partecipa agli avvenimenti.

Renzo è deciso a tornare indietro per raggiungere il convento di padre Bonaventura, ma è fermato dall’arrivo della carrozza del gran cancelliere Antonio Ferrer. Questi è apprezzato da gran parte della popolazione, che lo giudica sensibile ai problemi della povera gente, soprattutto da quando ha abbassato il prezzo del pane, fissando una «meta», ovvero un calmiere.

Manzoni sorride mentre ci descrive quella marea di gente tutta in punta di piedi: tanto varrebbe che se ne stessero più comodi per terra, vedrebbero allo stesso modo («e tutti, alzandosi in punta di piedi,… vedevano né più né meno che se fossero stati tutti con le piante in terra, ma tant’è, tutti s’alzavano»).

Manzoni, cattolico e liberale, disapprova il tumulto e riflette sul carattere della folla, che definisce «corpaccio», perché incapace di decisioni autonome, di spirito critico, composta da individui pronti a lasciarsi ingannare dal primo commediante che scenda in piazza con atteggiamenti studiati e, solo per l’occasione, affabili («attori, spettatori, strumenti, ostacoli, secondo il vento; pronti anche a stare zitti, quando non sentan più grida da ripetere, a finirla, quando manchino gl’istigatori, a sbandarsi, quando molte voci concordi e non contraddette abbiano detto: andiamo; e a tornarsene a casa, domandandosi l’un con l’altro: cos’è stato?»).

Ferrer affronta la folla, presentandosi ad essa con un atteggiamento fiducioso, senza essere scortato dalle guardie, senza tutti quegli onori e gli apparati che di solito accompagnano le autorità («gli animi già propensi erano ora ancor più innamorati dalla fiducia animosa del vecchio che, senza guardie, senza apparato veniva…»); dice che viene per condurre il vicario in prigione e Manzoni paragona la folla ad un cane rabbioso a cui si getta un osso per calmarlo («faceva poi un effetto mirabile il sentir che veniva a condurre in prigione il vicario… ora con quella promessa di soddisfazione, con quell’osso in bocca s’acquietava un poco»).

Coloro che, come Renzo, non vogliono la morte del vicario («i partigiani della pace») aiutano in tutti i modi Ferrer, perché si faccia largo in carrozza, tra la folla, per giungere alla casa assediata. Ora, il progetto di uccidere il vicario è scemato; la folla, facilmente influenzabile, grida: «prigione, giustizia, Ferrer!».

Manzoni non approva Ferrer e ne evidenzia il doppio gioco: egli blandisce la gente con sorrisi e gentilezze, con slogan demagogici («pane» e «abbondanza») in lingua italiana, rettificando tra sé, in lingua spagnola, le incaute affermazioni pronunciate ad alta voce.

La doppia lingua riproduce la divergenza fra i suoi atteggiamenti e le reali intenzioni: fa credere alla gente che intende arrestare il vicario per dargli la giusta punizione, mentre in realtà vuol metterlo in salvo; garantisce «pane e giustizia», ma sa bene che non bastano parole e buone intenzioni per produrre farina.

Perfino il cocchiere Pedro sfoggia doti magistrali di ipocrisia: arrogante, presuntuoso, tutto intento nel suo compito di guidare la carrozza del gran cancelliere, non ha mai, prima d’ora, usato molti riguardi verso la gente che incautamente intralciasse il suo cammino. In questa circostanza, invece, è ben pronto ad adottare la tattica del sorriso, delle richieste gentili di spazio; persino la frusta è manovrata con garbo e delicatezza.

Renzo, dopo essersi accertato sul cancelliere in arrivo («è un galantuomo, n’è vero? – … – eccome se è un galantuomo!»), si prodiga per aprire un varco alla carrozza, perché animato «dalla speranza di togliere un uomo all’angosce mortali».
Renzo viene gratificato dal magistrato con una serie di sorrisi benevoli, che conquistano l’ingenuo giovane, che si illude di essersi guadagnato così la gratitudine di un’importante personalità («al giovane montanaro invaghito di quella buona grazia, pareva quasi d’aver fatto amicizia con Antonio Ferrer»).

Manzoni non vuole fare di Renzo un eroe, ma un uomo medio, che, con i suoi difetti e debolezze, è però animato da un’istintiva volontà di fare il bene.

Ferrer, arrivato davanti alla porta del vicario di provvisione, si rincuora («mise un gran respiro»), perché essa è «ancor chiusa», sebbene i «gangheri», cioè i cardini, siano già quasi completamente schiodati; stando ben dritto in piedi sul predellino, con un aspetto fiero, con la sua toga indosso, saluta con un inchino la folla esacerbata, mette la mano sinistra sul petto e grida: «pane e giustizia».

L’istante successivo, quello in cui Ferrer entra attraverso lo «spiraglio» della porta, è accompagnato dalla similitudine, davvero calzante, della serpe «che si rimbuca inseguita»: si mette di nuovo in evidenza l’atteggiamento viscido e sfuggente e il duplice volto morale del personaggio.

Ferrer, entrato, prende per mano il vicario, più morto che vivo per la paura. Il vicario, «come un bambino alla sottana della mamma», si stringe a Ferrer; insieme escono velocemente dalla casa e salgono in carrozza, mentre dalla folla arrivano applausi e imprecazioni («la moltitudine… mandò un urlo di applausi e di imprecazioni»).

La carrozza parte e, mentre il vicario si raggomitola nel fondo di essa, Ferrer continua a tenere calma la folla con i suoi sconnessi discorsi in italiano, mentre in lingua spagnola, a mezza voce, rassicura il vicario, spiegandogli che si tratta di un’astuzia per uscire illesi (« – sì, signori; pane e giustizia: in castello, in prigione, sotto la mia guardia… no,no: non iscapperà. Por ablandarlos… esto lo digo por su bien»). Il vicario è finalmente in salvo: ora la carrozza riprende l’abituale andatura.

Pedro sembra risvegliarsi da un brutto sogno e ritorna quello di prima: arrogante e prepotente, non lesina la frusta e gli scocchi («gli tornò in petto il cuore antico… si rammentò chi era, e chi conduceva… e sferzando i cavalli, fece loro prender la rincorsa verso il castello»).
Il vicario sembra rinascere e dichiara di voler diventare un eremita, mentre la maggior preoccupazione di Ferrrer riguarda cosa diranno e faranno le autorità superiori.

Questo articolo è tratto dall’ebook “Guida ai Promessi Sposi” in vendita su
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