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Torture medievali contro eretici e streghe

Le torture medievali contro eretici e streghe erano giustificate e adottate dalla Chiesa che vedeva in esse uno strumento fondamentale ai fini della ricerca della verità.

I sospettati di eresia e di “magia nera” venivano imprigionati, per poi essere deferiti al tribunale dell’Inquisizione, una istituzione giudiziaria affidata dapprima ai domenicani e in seguito ai gesuiti, incaricata di processare e condannare i sospetti.

In genere una giuria, composta da rappresentanti del clero e da laici, assisteva gli inquisitori durante il processo e nella formulazione del verdetto. La parola di due testimoni era sufficiente quale prova di colpevolezza.

La condanna era proporzionale alla gravità del peccato, all’importanza dell’accusato e alle “prove” contro di lui. La condanna prevedeva pene che andavano dal divieto di ricevere i sacramenti, alla scomunica (la più severa censura ecclesiastica), fino alla condanna a essere bruciato vivo sul rogo nella pubblica piazza, alla presenza della folla, che spesso vi partecipava come a uno spettacolo (un nome basta per tutti: il filosofo cattolico Giordano Bruno, processato a Roma dal tribunale dell’Inquisizione e bruciato in piazza Campo dei Fiori).

Il processo era solitamente preceduto da pratiche di tortura, affidate a personale laico “specializzato”, che prevedevano terribili forme di supplizio corporale, spesso protratte per ore, fino alla perdita dei sensi dell’accusato.

Gli strumenti di torture medievali più comuni erano:

  • i «tratti di corda», l’inquisito, con le mani legate dietro la schiena, veniva sollevato più volte in aria per mezzo di un sistema di carrucole e quindi lasciato cadere;
  • il «cavalletto», un congegno sul quale si stiravano le membra del torturato;
  • il «fuoco», si ungevano i piedi del torturato per ravvicinarli poi a una fonte di calore;
  • la «stanghetta», un sistema di contenzione che comprimeva polsi e caviglie;
  • le «cannette», si stringevano con appositi strumenti le dita giunte del tormentato;
  • la «veglia», s’impediva al torturato, legato a un sedile, di addormentarsi per un periodo che poteva arrivare a due giorni;
  • la «bacchetta», uno staffile, che veniva usato anche nei confronti dei minorenni, non però prima del nono anno di età.

L’imputato che avesse resistito al dolore causato dagli strumenti di tortura senza ritrattare era considerato veridico; l’imputato che vi avesse resistito senza confessare era dichiarato innocente.
I notai erano chiamati a registrare con precisione carattere e durata dei singoli tipi di tortura; dopo essere stati sottoposti a tortura, si chiedeva all’imputato confesso di confermare la sua confessione, nel qual caso si parlava di confessione spontanea.

L’uso della tortura per punire o per estorcere informazioni o confessioni, fu abolito nel secolo dell’Illuminismo, nel 1740, da Federico II di Prussia. In seguito molti pensatori e scrittori denunciarono la tortura come una pratica incivile e iniqua, a partire da Cesare Beccaria nella sua opera Dei delitti e delle pene, che risale al 1764.

Nei primi anni dell’Ottocento quasi tutta l’Europa abolì questa pratica; tuttavia ancora oggi diverse associazioni che si occupano della difesa dei diritti umani, tra le quali Amnesty International, denunciano che essa è utilizzata in molti Paesi del mondo, sia per punire i criminali sia per estorcere informazioni.

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