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Gli Italiani nell’Italia unita

Gli italiani, nel 1861, l’anno dell’Unità, erano circa 25  milioni. La maggior parte era dedita all’agricoltura.

L’Italia agricola

Nel Sud e nelle isole la proprietà era organizzata in latifondi, proprietà molto estese coltivate a cereali in cui si praticava anche il pascolo brado.

Nell’Italia centrale la proprietà era invece organizzata col sistema della mezzadria, il contratto agrario per il quale il proprietario della terra affidava la coltivazione di un podere al mezzadro col patto di dividere sia le spese sia gli utili dei raccolti.

L’agricoltura era caratterizzata dall’assenza di meccanizzazione. Da ciò conseguiva una scarsa produttività, una povertà diffusa e un’economia caratterizzata, come nel Medioevo, dall’autoconsumo: si consumava solo ciò che si produceva.

I contadini si cucivano vestiti di lana tessuta da loro stessi; si difendevano dal freddo con pelli di capra; andavano scalzi o si avvolgevano i piedi con pezzi di stoffa tenuti insieme con dei legacci. Ogni genere di pagamento avveniva in natura.

Solo nel Nord, e soprattutto nella pianura irrigata da fiumi e canali del Piemonte e della Lombardia, erano presenti grandi aziende di tipo capitalistico, di proprietà dei cosiddetti “agrari”, che impiegavano braccianti a giornata e coltivavano grano oppure riso, gelsi per il baco da seta e altre colture specializzate, o anche foraggi per l’allevamento bovino. I bovini, gli animali che per il loro latte e la loro carne danno maggiori soddisfazioni economiche, erano dunque concentrati nel Nord ed erano comunque pochissimi rispetto a quelli di Francia, Inghilterra o Germania. Nel resto dell’Italia gli animali da allevamento erano pecore, capre, polli e maiali.

Fra gli uomini politici settentrionali ben pochi avevano conoscenza diretta delle condizioni del Mezzogiorno. Lo stesso Cavour, che pure aveva girato in lungo e in largo per l’Europa, non si era mai spinto a sud di Firenze. Il romagnolo Luigi Carlo Farini (1812-1866), quando nell’autunno del 1860, fu inviato nelle province meridionali in qualità di luogotenente generale, non seppe nascondere il proprio stupore e il proprio aristocratico disprezzo: «Che barbarie! – scriveva in una lettera a Cavour – Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini, a riscontro di questi cafoni, son fior di di virtù civili».

Denutrizione, malattie e scarsa igiene

L’alimentazione contadina, anche se più abbondante nel Centro-Nord che nel Sud, era ovunque un’alimentazione povera.

Il pane di frumento, come del resto il vino e la carne, era privilegio dei ricchi. La stragrande maggioranza degli Italiani doveva accontentarsi di pane di mais o di polenta, integrati al massimo dalle castagne, un po’ di verdura, qualche formaggio.

Le conseguenze di questa dieta poverissima erano la diffusione della pellagra, una malattia causata dalla mancanza di alcune vitamine, che prima attacca la pelle poi può provocare addirittura la demenza; oppure del gozzo, che si manifesta con una tumefazione del collo causata dal rigonfiamento della ghiandola chiamata tiroide. Anch’esso può causare il cretinismo.

La mortalità generale, e soprattutto la mortalità infantile, erano al di sopra della media europea ed erano il frutto di condizioni sanitarie quanto mai precarie. Si moriva per la malaria, per il colera, per la tubercolosi che, essendo contagiosissima, era la causa prima della mortalità.

Le condizioni di igiene erano estremamente precarie: il 77% dei comuni della penisola era ancora privo di fogne; le case mancavano perfino delle latrine.

Materie prime, industrie, infrastrutture

Modernizzare la nazione non era facile. Rispetto all’Inghilterra, alla Francia, alla Germania, l’Italia aveva innanzitutto il problema di non possedere carbone, il combustibile necessario per alimentare qualsiasi macchina a vapore, e di avere pochissimo ferro, le due materie prime senza le quali non può verificarsi lo sviluppo industriale.

Gli industriali italiani lamentavano l’alto costo dei macchinari che erano costretti a comprare in Inghilterra, in quanto in Italia c’erano pochissime industrie meccaniche.

Ad aggravare la situazione interveniva il fatto che l’Italia era quasi del tutto priva di infrastrutture.

Una rete ferroviaria nazionale era in pratica inesistente. Nel 1861 erano in funzione 2000 km di strade ferrate, di cui due terzi in Piemonte e in Lombardia.

Anche la rete stradale era gravemente carente, soprattutto nel Sud.

Molte infrastrutture furono messe a punto dagli investitori stranieri. Costoro, traendo notevoli guadagni, impiantarono imprese minerarie in Sardegna, Sicilia e Romagna per l’estrazione rispettivamente del piombo, dello zolfo (diventato merce preziosa come disinfettante per piante come la vite colpite dal “mal bianco”) e dello zinco; fondarono società per l’illuminazione e il riscaldamento a gas; costruirono tram a vapore in Lombardia.

L’analfabetismo nell’Italia post unitaria

Effetto e causa della miseria era l’analfabetismo.

Effetto, perché una popolazione poverissima non riesce a distogliere i bambini dal lavoro per mandarli a scuola; causa, perché un analfabeta è tagliato fuori da ogni possibilità di miglioramento economico e sociale.

Nel 1870, l’anno della presa di Roma, 73 italiani su 100 non sapevano né leggere né scrivere e firmavano i documenti con una croce. Inoltre 90 persone su 100 parlavano solo il proprio dialetto e non capivano la lingua italiana.

Nel 1877 venne emanata la Legge Coppino. La Legge Coppino elevava l’obbligo scolastico a tre anni, ma le spese per il mantenimento delle scuole erano a carico dei Comuni e questi erano per lo più poverissimi. La stessa formazione degli insegnanti andava a rilento: succedeva anche che, dietro pesanti raccomandazioni, venissero reclutati insegnanti analfabeti.

Tuttavia c’erano famiglie poverissime che avevano capito che senza la scuola non esisteva alcuna possibilità di riscatto sociale e facevano ogni sacrificio pur di garantire ai figli almeno i primi due anni delle elementari. Vi erano ragazzini che percorrevano a piedi (scalzi) diversi km al giorno per frequentare la scuola più vicina.

Nonostante tutte queste difficoltà, grazie alla scuola elementare obbligatoria, l’analfabetismo cominciò a scendere, anche se lentamente e lasciando l’Italia molto indietro rispetto a nazioni come la Gran Bretagna, la Francia e la Germania.

L’emigrazione italiana

Tra il 1876 e il 1914, 14 milioni di Italiani abbandonarono il Paese per cercare un lavoro all’estero. Gli Italiani si recarono in Svizzera, Francia, Belgio, Olanda, Stati Uniti, Australia e America meridionale.

Non era certo facile la vita dell’emigrante italiano. Gli Italiani sperimentarono sulla loro pelle il razzismo dei Paesi ospiti. I problemi di integrazione esistevano: gli Italiani erano tra gli stranieri i meno alfabetizzati, non conoscevano la lingua dei luoghi di arrivo e non riuscivano a impararla rapidamente; inoltre nessuno di loro era un lavoratore specializzato, per cui quasi tutti venivano impiegati in lavori umili, pesanti, socialmenti disprezzati.

L’emigrazione fu deprecata per decenni dalla maggioranza degli uomini politici italiani, che la ritenevano una vergogna per il Paese. In realtà essa fu più che vantaggiosa e, pur passando attraverso i tremendi sacrifici delle prime generazioni, giovò sia alle loro famiglie sia alla nazione intera.

Il primo vantaggio era costituito dalle rimesse, cioè dai trasferimenti di denaro degli emigrati alle famiglie rimaste a casa. Con le rimesse, infatti, i parenti riuscirono a pagare i biglietti di viaggio, a comprarsi un terreno, a edificarvi una casa. Questo denaro, inoltre, circolò nella nazione, permettendo finalmente la formazione di un gruppo di consumatori e di un mercato interno che facilitò lo sviluppo dell’industria e del commercio.

Il secondo vantaggio fu il contributo dato all’alfabetizzazione. Di fronte alla necessità di comunicarsi a distanza, gli italiani emigranti all’estero e le loro famiglie in Italia impararono col tempo a leggere e a scrivere, riuscendo laddove lo Stato non era riuscito ad arrivare.

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