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Milano, agosto 1943: Quasimodo e la guerra

Milano, agosto 1943 di Salvatore Quasimodo: testo, spiegazione, commento, analisi del testo e figure retoriche.

Milano, agosto 1943: introduzione

Tra l’8 e il 16 agosto 1943 violenti bombardamenti colpirono Milano: 916 bombardieri britannici Lancaster e Halifax sganciarono in tutto 2600 tonnellate di bombe. I morti accertati furono un migliaio, più di 10.000 i feriti, 250.000 i senzatetto. Colpiti i monumenti e gli edifici simbolo: il Duomo, la Scala, il Palazzo Reale, la Stazione Nord, la chiesa di San Babila, la Basilica di Sant’Ambrogio, Santa Maria delle Grazie (ma L’ultima cena di Leonardo da Vinci, protetta, miracolosamente non fu toccata). Dappertutto segni di violenza, di distruzione, di morte, che non lasciavano adito neppure alla speranza.

Testimone di tanta tragedia, il poeta Salvatore Quasimodo (1901-1968). Egli registrò quei terribili segni, facendosi interprete del dolore di tutti. Ne nacque questa lirica, in cui il poeta esprime, tra il dolore e la rabbia dell’impotenza, la propria condanna alla guerra, di ogni guerra, macchina infernale di violenza, distruzioni, omicidi; tomba degli affetti, dei desideri e della voglia di vivere.

Milano, agosto 1943: il testo della poesia

Invano cerchi tra la polvere,
povera mano, la città è morta.
È morta: s’è udito l’ultimo rombo
sul cuore del Naviglio. E l’usignolo
è caduto dall’antenna, alta sul convento,
dove cantava prima del tramonto.
Non scavate pozzi nei cortili:
i vivi non hanno più sete.
Non toccate i morti, così rossi, così gonfi:
lasciateli nella terra delle loro case:
la città è morta, è morta.

Milano, agosto 1943: analisi del testo

Questa poesia fa parte della raccolta Giorno dopo giorno (1947), che segna una svolta nella produzione di Salvatore Quasimodo: dalla stagione ermetica del Primo Novecento a quella politica del secondo dopoguerra.

Il compito che ora si impone all’intellettuale con tutta urgenza ed evidenza è quello di «rifare l’uomo», come lo stesso Quasimodo sottolinea in un articolo comparso su «La Fiera Letteraria» nel giugno del 1947.
«Io non credo» scrive Quasimodo «alla poesia come “consolazione”, ma come moto a operare in una certa direzione in seno alla vita, cioè “dentro” l’uomo. Il poeta non può consolare nessuno, non può “abituare” l’uomo all’idea della morte, non può diminuire la sua sofferenza fisica, non può promettere un eden, né un inferno più mite… Oggi, poi, dopo due guerre nelle quali “l’eroe” è diventato un numero sterminato di morti, l’impegno del poeta è ancora più grave, perché deve “rifare” l’uomo, quest’uomo disperso sulla terra, del quale conosce i più oscuri pensieri, quest’uomo che giustifica il male come una necessità, un bisogno al quale non ci si può sottrarre… Rifare l’uomo: questo il problema capitale. Per quelli che credono alla poesia come a un gioco letterario, che considerano ancora il poeta un estraneo alla vita, uno che sale di notte le scalette della sua torre per speculare il cosmo, diciamo che il tempo delle “specualzioni” è finito. Rifare l’uomo, questo è l’impegno».

Il testo è formato da tre sequenze:

  1. il bombardamento, che ha distrutto cose e persone;
  2. il silenzio di morte, non turbato da nulla, neanche dal canto dell’usignolo;
  3. lo smarrimento impotente e la disperazione di chi capisce che non c’è più niente da fare, neanche seppellire i morti, già custoditi sotto le macerie delle loro case.

Le immagini sono volutamente forti, crude, reali: la «povera mano» che «invano» cerca nella «polvere» chi non c’è più; la morte della città mentre ancora si sente «l’ultimo rombo»; l’usignolo «caduto dall’antenna»; gli inutili pozzi scavati «nei cortili»; i vivi che «non hanno più sete», perché anche i vivi sono come i morti, hanno perso il gusto della vita e sono estranei ai suoi bisogni (come la  sete); il gonfiore dei cadaveri ricoperti da quel sangue rosso che evoca strazio e dolore.

Il testo è breve, composto da una sola strofa di versi liberi, di varia misura. Le frasi rispettano un ordine sintattico abbastanza regolare, con lessico semplice, comune, vicino al parlato.

Poche ma significative le figure retoriche: quelle di costruzione come gli enjambement fra i versi 3-4 e 4-6; l’apostrofe¹ rivolta ai sopravvissuti («non toccate i morti», «lasciateli nella terra»); l’iterazione (o ripetizione) dell’espressione «è morta»; quelle di significato come le metonimie («polvere», «rombo») in cui la parte per il tutto rende ancora più concreta l’immagine di devastazione.

¹apostrofe figura retorica che consiste nel rivolgere bruscamente il discorso a un destinatario reale o immaginario (presente o assente), in tono sdegnato o commosso.

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