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Sistema giudiziario nell’antica Atene

Il perno del sistema giudiziario nell’antica Atene era costituito dal tribunale dell’Eliea. Potevano fare parte dell’Eliea tutti i cittadini ateniesi di condizione libera e non soggetti a restrizioni nel godimento di diritti civili.

I componenti di questo tribunale popolare ricevevano un compenso, fissato da Pericle in due oboli al giorno e poi portato a tre da Cleone. In tempi difficili, come durante la guerra del Peloponneso, questa entrata era molto ambita.

Il sistema giudiziario nell’antica Atene prevedeva che soltanto chi si riteneva leso in qualcosa potesse promuovere un’azione legale, e questo anche nel caso di reati di sangue. In altre parole non era prevista la procedura d’ufficio, per cui doveva essere il parente di un ucciso – ad esempio- a denunciare l’assassino.

I processi potevano riguardare un interesse pubblico (e in questo caso chiunque poteva intentare una causa contro qualcuno) o privato.

Soltanto in casi eccezionali era previsto l’arresto dell’imputato e la sua detenzione. Normalmente le parti si incontravano in tribunale il giorno fissato per il processo.

Il processo veniva istruito dal magistrato che aveva ricevuto l’accusa. Egli si preoccupava di raccogliere i vari elementi (prove a carico o a discolpa, testimonianze e quant’altro) che le parti ritenevano opportuno produrre. Alla fine i tesmoteti fissavano la data del processo.

Per le cause private era previsto un tentativo di conciliazione. Se esso falliva si andava in giudizio in tribunale.

Il processo non poteva durare più di un giorno. Quest’ultimo era calcolato sul mese di Posideone (da metà dicembre a metà gennaio).

Alle parti era fissato un tempo massimo per la requisitoria e per l’arringa. Il tempo era scandito da una clessidra. La clessidra veniva fermata per l’ascolto delle testimonianze addotte o per la lettura di testi di legge che i comparenti ritenevano opportuno produrre. I giudici, infatti, non erano esperti di diritto, e quindi era interesse delle parti citare le norme favorevoli alla causa. Il tempo a disposizione era quello impiegato da determinate quantità d’acqua a scorrere in una clessidra: 35 litri per le cause superiori a 5.000 dracme (la durata equivale a poco meno di un’ora) e circa 11 litri per la replica. Alle cause di valore inferiore erano asseganti tempi via via più ridotti.

Entrambi i contendenti dovevano sostenere personalmente le proprie ragioni, non essendo prevista la figura dell’avvocato. Da qui l’uso di ricorrere a un logografo. Il logografo stilava l’orazione accusatoria o difensiva che poi il denunciante o l’imputato recitava a memoria.

Le donne, i minori o i meteci dovevano essere rappresentati da un tutore.

Il verdetto veniva emesso subito dopo l’eventuale replica (anch’essa fissata con un tempo massimo) che ciascuna delle parti poteva pronunziare.

I giudici procedevano alla votazione con un complesso sistema, tendente a evitare i brogli. Un passo da La Costituzione degli Ateniesi di Aristotele (68-69) la descrive minutamente:

«I voti sono dischetti di bronzo, provvisti di un perno al centro; per metà sono forati, per metà interi. I giudici incaricati di sorvegliarli, dopo che i discorsi sono finiti, consegnano ad ogni giudice due voti, uno forato e uno pieno, facendoli vedere alle parti in causa affinché non li ricevano né entrambi forati né entrambi pieni. […]

Ci sono nel tribunale due anfore, l’una di bronzo e l’altra di legno, che si possono separare perché non vi si introducano voti con l’inganno. In esse li mettono i giudici. L’anfora di bronzo è quella decisiva, l’anfora di legno non ha importanza, e la fessura del coperchio lascia passare soltanto un voto alla volta, affinché il medesimo giudice non ne metta due.

Quando i giudici stanno per votare, l’araldo per prima cosa chiede se le parti in causa vogliano impugnare le testimonianze; perché poi, una volta cominciata la votazione, non è più possibile farlo. Poi un secondo proclama: «Il dischetto forato è a favore di chi ha parlato per primo, quello pieno a favore di chi ha parlato per secondo». Il giudice, prendendo insieme i voti dal perno e coprendolo senza mostrare alle due parti se sia quello forato o quello pieno, infila il voto valido nell’anfora di bronzo e quello nullo nell’anfora di legno.
Dopo che tutti hanno votato, i servi prendono l’anfora con i voti validi e la vuotano su una tavola con tanti fori quanto sono i voti, e questo affinché i voti validi si possano contare facilmente, sia quelli forati sia quelli pieni, ben visibili alle due parti in causa.

I giudici preposti ai voti le contano sulla tavola, separando quelli pieni da quelli vuoti, e l’araldo proclama il conteggio dei voti, quelli forati per l’accusa, quelli pieni per la difesa; vince chi ne ha di più, e l’accusato in caso di parità. Poi, se occorre, valutano di nuovo l’ammenda, votando allo stesso modo […]. La valutazione dura per ciascuna delle due parti tanto quanto un mezzo congio d’acqua [cioè litri 1,75]. Sbrigata la sentenza secondo le leggi, i giudici ricevono il loro compenso […]».

In caso di condanna, una seconda riunione dei giudici fissava la pena. Altrimenti, dopo un verdetto assolutorio, il processo terminava definitivamente.

Prima del processo, il denunciante versava un deposito cauzionale. Esso diventava proprietà dello stato se l’accusa veniva ritirata; questa possibilità era concessa fino al momento del verdetto. Chi denunciava doveva ottenere dai giudici almeno un quinto dei voti, altrimenti veniva denunciato a sua volta per calunnia, oltre a subire la pena di una multa.

I tribunali del sistema giudiziario nell’antica Atene

I tribunali erano più d’uno. Il più antico era quello dell’Areopago, che giudicava i reati di sangue e gli omicidi compiuti con premeditazione. L’Areopago poteva infliggere la pena di morte in caso di omicidio, l’esilio e la confisca dei beni per ferimento premeditato.

Per i reati colposi il tribunale era quello del Palladio. Il tribunale del Delfinio giudicava gli omicidi per legittima difesa o quelli previsti per particolari circostanze, come la flagranza dell’adulterio. Il tribunale del Pritaneo gestiva le cause di omicidio a opera di ignoti. Il Freatto quelle contro imputati già condannati all’esilio per precedente omicidio. In questo caso il reo veniva giudicato stando in piedi su una barca ancorata in riva al mare, per non contaminare col suo “miasma” la terra patria.

 

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