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Carlo Porta e la Poesia Dialettale

Carlo Porta poeta dialettale milanese del primo Ottocento.

Nei secoli precedenti all’Ottocento, la poesia dialettale era sempre vissuta ai margini della letteratura: le erano riservati solo alcuni temi e non usciva dai confini regionali. Comunemente restava un passatempo un po’ ozioso. Ma nell’età del Romanticismo la poesia dialettale si pone alla pari con la letteratura in lingua italiana.
Gli esponenti più significativi di questo importante filone letterario sono, nell’Ottocento, il milanese Carlo Porta (1775-1821) e il romano Giuseppe Gioacchino Belli (1791-1863).

Carlo Porta: breve biografia del poeta dialettale milanese

Carlo Porta nacque a Milano il 15 giugno 1775. Fu prima filonapoleonico, ma con crescente avversione per la Francia dopo aver sperimentato il comportamento delle milizie francesi e le fatali conseguenze dell’occupazione. Dopo l’aprile 1814 fu autonomista: sperò quindi che l’Austria, dopo il ciclone napoleonico, restituisse al milanese la pace e l’ordine.

Deluso invece dalla politica della Restaurazione, partecipò agli ideali di rinnovamento culturale politico e sociale espressi dal gruppo del «Conciliatore». È significativa la sua amicizia con i maggiori intellettuali del tempo: Foscolo, Manzoni, Grossi, Berchet, Visconti, divenuti frequentatori abituali della sua casa e dei quali condivise sia le opinioni politiche sia le teorie letterarie romantiche.
Carlo Porta morì a soli quarantasei anni, il 5 gennaio 1821.

Carlo Porta: comicità e dolente satira sociale

Carlo Porta conferì alla poesia dialettale una dignità espressiva e un’importanza ideologica prima inconcepibili. Il dialetto, nei suoi componimenti, non è soltanto il frutto di una scelta linguistica, ma l’unico strumento veramente capace di esprimere, in modo diretto, vivace e realistico, il ricco e vario mondo dei popolani, dei poveri e degli emarginati e di dare corpo a una satira che denuncia i vizi e i privilegi della classe dominante nella società contemporanea fatta di oppressori ed oppressi, di padroni e servi, di privilegiati nati per godere e di folle di individui nati per patire.

Carlo Porta: le opere

Nell’ambito della polemica di Carlo Porta contro i vizi e le debolezze dell’aristocrazia, uno dei componimenti più significativi è La nomina del Cappellano (1819-1820), una divertente ma insieme pesante satira di costume: tra i molti aspiranti alla nomina di cappellano, la scelta della marchesa cade su un «pretuccolo brutt brutt» a cui si è rivolta la predilezione della cagnetta!

Più severa la denuncia dell’orgoglio di casta in La preghiera: una dama confida uno spiacevole incidente capitatole all’ingresso della chiesa, una caduta che aveva provocato le risa di tanti «mascalzon», ma lei li aveva perdonati e aveva pregato per loro! Il racconto della marchesa è un capolavoro di ironia: il poeta rappresenta con estrema finezza, attraverso il quadretto vivacissimo della dama scandalizzata, la vanità della nobiltà, la sua vuota altezzosità, la convenzionalità delle sue pratiche religiose e dei suoi principi morali, il suo presuntuoso paternalismo.

Rapida e grande fama assicurò subito a Carlo Porta un componimento, Desgrazi de Giovannin Bongee (1812) che con le Oter desgrazie de Giovannin Bongee, scritte in continuazione l’anno dopo, è un’amara satira del poveruomo, timido e millantatore, debole e velleitario sempre perseguitato dalla sfortuna e destinato a collezionare umiliazioni e sconfitte.

Un altro capolavoro del poeta Carlo Porta è Ninetta del Verzee (1814): la protagonista, una prostituta, racconta la sua triste storia. Il racconto procede con fredda oggettività, senza alcuna concessione a motivi patetici. Un fatto di cronaca, un documento della triste realtà quotidiana, un vero frammento di vita.

Sulla linea del Giovannin Bongee si colloca, ma su un più alto piano umano e poetico, il Lament del Marchionn (1816), in cui il protagonista, un ciabattino, racconta la sua triste storia di marito tradito: dal momento in cui conobbe la donna, alle fasi del suo innamoramento e alle avventure di lei (con la complicità della madre), al matrimonio, alle continue prove d’infedeltà della donna, alla nascita inattesa di un bambino, fino alla separazione e alla triste solitudine. Una storia di tradimenti, di simulazioni, di sopraffazioni, riscattata dalla costante bontà dell’uomo e dall’umanissima conclusione: alla fine il poveraccio esprime il suo tenero affetto per il bimbo che egli crede (e vuole credere) suo, ricordando che, nello stato di tristezza e di miseria in cui era stato lasciato dalla donna, si sarebbe ucciso se a trattenergli la mano non fosse stato il pensiero di «quel car amor», di «quell pover innocent del mì bambin», che ha solo sette mesi ma sembra quasi di un anno «tant che l’è bell»!

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