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Laelius de amicitia: cosa diceva Cicerone sull’amicizia

Laelius de amicitia, più noto come De amicitia (“Sull’amicizia”), di Cicerone è un breve dialogo di carattere filosofico composto nel 44 a.C. (all’indomani dell’uccisione di Giulio Cesare), ma ambientato nel 129 a.C. subito dopo la morte di Publio Cornelio Scipione Emiliano, il comandante vincitore della terza guerra punica, morto nel corso delle agitazioni graccane.

Laelius de amicitia Cicerone – argomento

Il Laelius de amicitia (o più semplicemente De amicitia) si apre con la dedica di Cicerone all’amico di sempre Tito Pomponio Attico e un proemio nel quale l’autore riferendosi direttamente all’amico spiega i motivi che lo portano a trattare il tema e la fonte dell’amicizia. Cicerone svolge il dialogo come autenticamente avvenuto, attribuendogli una fonte autorevole: Quinto Muzio Scevola gli avrebbe riportato le parole proferite dal suocero nel 129 a.C., poco dopo la morte dell’Emiliano. Il dialogo vero e proprio inizia nel II capitolo.

Cosa diceva Cicerone sull’amicizia

Il dialogo si svolge tra Gaio Lelio (membro del Circolo degli Scipioni) e i suoi generi Gaio Fannio e Quinto Mucio Scevola. In realtà più che di un dialogo si tratta di un monologo di Lelio (inframmezzato da poche battute degli altri interlocutori), che sviluppa il tema principale dell’amicizia secondo cui non si dà amicizia vera se non fra animi virtuosi e buoni (cioè le persone di alto valore morale).

Amicitia, per i Romani, era soprattutto la creazione di legami personali e clientelari a scopo di sostegno politico o economico. La novità dell’impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas: a fondamento dell’amicizia sono posti valori come virtus e probitas, riconosciuti a vasti strati della popolazione.

Cicerone scrive per i boni, intendendo per boni tutte le persone perbene e virtuose, di cui la tradizione nazionale romana offre numerosi esempi. Ai boni dunque, cioè agli uomini virtuosi, Cicerone lancia un forte invito ad occuparsi della cosa pubblica, ad entrare nell’agone politico, nel rispetto del mos maiorum. È a questi virtuosi che indica la via dell’amicizia perfetta, quella che mescola virtus e probitas, fides e costantia. Quindi l’amicizia intesa non solo come legame personale, ma anche come fondamento per la coesione sociale e politica, essenziale per la stabilità dello Stato.

Si avverte in tutta l’opera un disperato bisogno di rapporti sinceri, comprensibile in chi, come lo stesso Cicerone, è preso nel vortice delle convenienze e dei rispetti sociali, delle finte amicizie. A onor del vero lo stesso Cicerone doveva alle giuste amicizie la sua ascesa politica da homo novus: l’homo novus era nell’antica Roma colui che proveniva da una famiglia in cui nessuno mai aveva rivestito alcuna carica pubblica come quelle di console, senatore, pretore, edile o altre magistrature romane. E tali amicizie sono le stesse che lo richiamarono dall’esilio in Cilicia. Cosa che Cicerone stesso non smentì mai, tutelando però il bene della vera amicizia dall’essere asservita a mera utilità.

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