Vittorio Alfieri nacque ad Asti il 16 gennaio 1749 da una famiglia della ricca nobiltà terriera. Sin dagli anni dell’infanzia si rivelò in lui una tendenza alla malinconia e alla solitudine, unita però a una volontà forte e caparbia, che si manifestava in impeti ribelli.
Nel 1758, a nove anni, fu mandato a compiere gli studi presso la Reale Accademia di Torino e ne uscì nel 1766 col grado di Portainsegna nel Reggimento di Asti. Più tardi diede giudizi durissimi sulla formazione che vi aveva ricevuta, arida e pedantesca, ispirata a modelli culturali del tutto antiquati.
Uscito dall’Accademia, seguendo un costume diffuso tra i giovani aristocratici del tempo, quello del grand tour, Vittorio Alfieri compì numerosi viaggi per l’Italia e l’Europa, che si protassero per ben cinque anni, dal 1767 al 1722.
L’uso dei viaggi, per la nobiltà europea, si inseriva nello spirito cosmopolita e nell’ansia di conoscenza che erano propri dell’età dell’Illuminismo. Ma i viaggi di Vittorio Alfieri non rientravano in questo spirito illuministico: il giovane non si spostava indotto dalla curiosità di vedere, di conoscere luoghi, costumi, linguaggi, mentalità, di accumulare esperienze, ma spinto da una smania febbrile di movimento, da un’irrequietezza continua, inappagabile, che non gli consentiva di fermarsi in alcun luogo, ed era sempre accompagnata da un senso di scontentezza, di noia, di vuoto, da una cupa malinconia che non avevano cause precise, definibili.
Più tardi, lo stesso Vittorio Alfieri identificherà questa scontentezza e irrequietezza con la vocazione poetica, destinata a riempire tutto il resto della sua vita.
Questi anni furono decisivi anche per la sua formazione culturale. Nel 1768, spinto da un amico, lesse per la prima volta «l’immortal Niccolò Machiavelli». Nello stesso anno lesse, ma senza nessun entusiasmo, Rousseau e Voltaire, lesse «con meraviglia» e «diletto» il Montesquieu. Ma la più grande avventura fu la lettura del Plutarco.
Nel 1771 durante un secondo viaggio in Europa, tra un gruppo di libri acquistati, Vittorio Alfieri si imbatté nei più grandi scrittori italiani. La sua attenzione si fermò in particolare su Dante, Petrarca, Boccaccio, Ariosto, Machiavelli, Tasso, i «sei luminari della lingua nostra in cui tutto c’è».
Nel 1775 fu messa in scena la sua prima tragedia Cleopatra. Da quel momento Vittorio Alfieri scoprì la sua vocazione di poeta tragico e da quel momento il proposito di conquistare la «palma teatrale» divenne la ragione fondamentale della sua esistenza.
Consapevole dei difetti di lingua e di stile della sua opera, Alfieri si immerse nelle letture di poeti italiani e latini, e negli studi di grammatica, finché nel 1776 si recò in Toscana per “disfrancesarsi”. A Firenze conobbe Louise Stolberg, contessa di Albany, moglie dell’anziano Charles Edward Stuart, pretendente al trono d’Inghilterra, e trovò in lei il «degno amore» che, insieme con la poesia, può dare equilibrio alla sua vita.
Nel 1778, per «spiemontizzarsi» definitivamente e per recidere ogni legame con il re di Sardegna, che esercitava un controllo oppressivo sulla nobiltà sabauda, rinunciò a tutti i suoi beni in favore della sorella Giulia, riservandosi una rendita vitalizia, e si trasferì a Roma.
Negli anni dal 1775 al 1782 compose con un ritmo vertiginoso il primo corpus delle sue tragedie, spesso incentrate sull’odio per la tirannide, fra le quali Agamennone (1777) e Saul (1782). In questa fase scrisse anche il trattato Della tirannide (1777) giungendo a giustificare il tirannicidio.
Costretto a lasciare Roma per lo scandalo della sua relazione con la contessa d’Albany, Alfieri ricominciò le sue peregrinazioni, finché non si fermò a Colmar, in Alsazia, insieme all’amata. Qui nel 1784 compose nuove tragedie, fra cui il suo capolavoro Mirra (1787), incentrata sulla lacerazione interiore della protagonista, divisa fra la legge morale e la passione per il padre.
Negli anni in cui aveva interrotto l’attività drammaturgica, Alfieri aveva composto gran parte delle sue Rime, comprendenti canzoni, odi e sonetti; sebbene il suo principale modello fosse Petrarca, il verso alfierano assume ritmi più franti, concitati e drammatici.
Negli anni 1788-1792, Alfieri soggiornò a Parigi, dove revisionò tutte le sue tragedie e dove assistette in prima persona gi eventi della Rivoluzione Francese. All’inizio guardò con viva simpatia il movimento rivoluzionario e celebrò con entusiaso la presa della Bastiglia nell’ode A Parigi sbastigliata. Ma poi di fronte agli sviluppi violenti della rivoluzione, agli eccidi, al disordine politico e morale, Vittorio Alfieri fu assalito dal disgusto e profonda amarezza: gli sembrò che alla tirannide del sovrano si sostituisse una non meno funesta tirannide, quella del popolo ignorante e inferocito.
Nel 1792 assieme alla contessa d’Albany si allontanò da Parigi e si recò a Firenze, dove visse i suoi ultimi anni in una sdegnosa solitudine, animato da un odio sempre più feroce contro i francesi, che si erano ormai impadroniti dell’Italia con le campagne napoleoniche. A Firenze si dedicò soprattutto alla stesura della sua autobiografia, la Vita di Vittorio Alfieri scritta da esso, uno dei suoi capolavori.
Vittorio Alfieri morì a Firenze l’8 ottobre 1803. Fu sepolto nella Basilica di Santa Croce, dove la contessa d’Albany gli fece erigere un monumento a opera di Antonio Canova.