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Guido Cavalcanti, Perch’i’ no spero di tornar giammai

La cronologia della vita e delle opere di Guido Cavalcanti, uno dei più autorevoli rappresentanti della Scuola del Dolce Stil Novo e la parafrasi, il commento e l’analisi del testo Perch’i’ no spero di tornar giammai.

Chi è Guido Cavalcanti?

Guido Cavalcanti (figlio di Cavalcante Cavalcanti collocato tra gli eretici nel canto X dellInferno) nasce a Firenze intorno al 1259 da una nobile e potente famiglia. Di carattere «sdegnoso e solitario e intento allo studio», partecipa alle lotte politiche della sua città.

Amico di Dante, si schiera con i Guelfi bianchi, la fazione che difende l’autonomia e l’indipendenza del Comune.

Il 24 giugno 1300 Dante, priore di Firenze, è costretto a mandare in esilio l’amico assieme ai capi delle fazioni bianca e nera, in seguito a nuovi scontri.

Guido Cavalcanti si reca allora a Sarzana, in Liguria (dove si pensa abbia scritto la celebre ballata Perch’i’ no spero di tornar giammai). Il 19 agosto dello stesso anno gli viene revocata la condanna per l’aggravarsi delle condizioni di salute (ha forse contratto la malaria). Il 29 agosto muore.

Nei suoi componimenti (ne sono pervenuti circa 50: 35 sonetti, 10 ballate, il resto sono canzoni) canta l’amore come un’intensa forza spirituale, ma anche come un sentimento che getta l’animo nello smarrimento e si accompagna all’idea della morte.

Oltre che per i suoi componimenti, è ricordato per essere stato citato da Dante nel nono sonetto delle Rime, Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io. Dante lo ricorda anche nella Divina Commedia (Inferno canto X e Purgatorio canto XI) e nel De vulgari eloquentia, mentre Boccaccio lo cita nel Commento alla Divina Commedia e in una novella del Decameron.

La lirica Perch’i’ no spero di tornar giammai è considerata una delle più belle di tutta la poesia stilnovista.

Guido Cavalcanti, Perch’i’ no spero di tornar giammai: la parafrasi

Poiché io non spero di tornare mai più, o piccola ballata, in Toscana, vai tu, lieve e semplice (piana), direttamente (dritt’a) dalla mia donna, la quale, grazie alla sua intelligenza, ti accoglierà con molto onore.

Tu porterai notizie dei miei sospiri, piene di dolore e di paura della morte; ma stai attenta che non ti veda una persona che sia nemica di un animo gentile, nobile: perché, certamente, per mia sfortuna, tu saresti contrastata (contesa) e tanto da lei criticata (ripresa), e ciò sarebbe per me motivo di pianto e di nuovo dolore, dopo la morte.

Tu senti, o mia piccola ballata, che la morte m’incalza così da vicino che avverto venir meno le forze, e senti come il mio cuore batte forte per tutto quello che provo e sento dentro di me. Tanto è malato ormai il mio corpo (persona) che io non ho più la forza di resistere; se tu vuoi fare qualcosa per me, conduci la mia anima con te, ti prego vivamente, quando si staccherà dal corpo.

O mia piccola ballata, alla tua amicizia raccomando questa mia anima che trema al pensiero della morte: portala con te, nello stato pietoso in cui essa si trova, a quella bella donna, alla quale io ti invio. O mia piccola ballata, quando sarai davanti a lei, dille sospirando: «Questa vostra anima devota viene per restare con voi, distaccatasi (partita) da colui che fu vostro servo d’Amore».

Tu, voce impaurita e debole, che esci piangendo dal mio cuore addolorato, insieme alla mia anima e a questa piccola ballata, parla (va’ ragionando) della mia mente distrutta (strutta). Voi troverete una bella donna, di animo così gentile, che sarà per voi una gioia starle sempre dinanzi (davanti). E tu, anima mia, adorala sempre per la sua virtù.

Guido Cavalcanti, Perch’i’ no spero di tornar giammai: analisi e commento

Lontano dalla propria patria, con l’animo tormentato dalla solitudine e dalla paura della morte che sente vicina, il poeta affida a questa «ballatetta» (“piccola ballata”) gli ultimi sospiri della sua anima. La sua speranza è che essa possa farli pervenire alla donna amata, per consentirgli di continuare a vivere nel ricordo e nell’amore di lei.

Il dialogo tra il poeta e la ballata assume il tono di un colloquio intimo del poeta con se stesso, nel quale a poco a poco il lamento di dolore finisce col trasformarsi in una dolce e rassegnata malinconia.

Cavalcanti in obbedienza alla poesia cortese riprende i temi del rimpianto per la lontananza, la malinconia dell’amore, la gentilezza dell’animo della donna, l’onore. Questi motivi sono però rivisitati dalla personale visione del mondo del poeta caratterizzata dal dolore, dall’angoscia, dalla paura, dalla distruzione fisica, dalla morte.

Lo stile colloquiale è sottolineato dall’apostrofe¹, dai pronomi di seconda persona (Cavalcanti si rivolge alla ballata come se fosse una persona: va tu, leggera e piana), dalle anafore (Deh, ballatetta… Deh, ballatetta).
L’ultimo verso di ogni strofa, che rima in –ore, presenta nella catena delle parole i motivi tematici del testo (onore, dolore, core, Amore, valore), sottolineandone il tono dolente ma dolce.

¹apostrofe figura retorica che consiste nel rivolgere bruscamente il discorso a un destinatario reale o immaginario (presente o assente).

 

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