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La felicità secondo i filosofi antichi

Cos’è la felicità e come raggiungerla secondo i filosofi Democrito, Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro e Agostino.

La felicità secondo Democrito

Per Democrito (460-360 a.C.) la felicità non si ottiene conquistando il potere o accumulando ricchezze, ma liberandosi dagli affanni e cercando di comportarsi con moderazione nelle varie circostanze della vita, secondo un edonismo moderato, frutto di un calcolo razionale.

La felicità non si identifica con l’appagamento di piaceri immediati e sfrenati, considerati fonti di turbamento, perché secondo Democrito la condizione fondamentale per riuscire a essere felici è raggiungere la saggezza, ovvero la capacità di essere equilibrati, moderati, di avere autocontrollo e stabilità interiore.

Strumenti utili a raggiungere la felicità interiore sono il rispetto delle norme morali e la moderazione delle passioni.

In cosa consiste la felicità secondo Socrate?

Per Socrate (469-399 a.C.) la felicità è eudaimonìa e, pertanto, si identifica con il bene morale, mentre l’infelicità s’identifica con il male.

Per Socrate il sapere è una forza direttiva dell’azione umana e, se davvero si sa cosa è giusto e bene fare, non è possibile non farlo. Anche quando apparentemente sembra portare conseguenze dolorose, l’azione virtuosa, ovvero quella conforme al bene, è portatrice a lungo termine di una felicità che nasce dalla più elevata perfezione morale che l’essere umano consegue e che lo rende migliore.

Per Socrate la felicità coincide con una costante ricerca per superare le nostre false certezze e riconoscere i nostri limiti, quindi per cessare di essere ignoranti. Soltanto tramite questa ricerca è possibile per l’essere umano raggiungere una condizione superiore. Una vita felice, allora, per quanto inevitabilmente instabile, non consiste nell’accumularre beni immateriali, ma nella cura della propria interiorità.

Dove risiede la felicità per Platone?

Anche per Platone (427 a.C.-347 a.C.) la felicità è eudaimonìa e coincide con la contemplazione della verità eterna e immutabile del mondo delle Idee, quel mondo che rappresenta anche il termine ideale della incessante ricerca di cui parlava il suo maestro Socrate.

Raggiungere il mondo delle Idee significa che l’essere umano ha ricomposto la perfetta armonia tra anima e corpo e che è diventato simile agli dèi. Nell’imperfetto mondo sensibile la felicità non può realizzarsi perché bene e male lottano continuamente tra loro. Per essere felici gli esseri umani devono diventare simili agli dèi, perché soltanto nel mondo sovrasensibile il male non esiste. Felici sono, pertanto, soltanto i filosofi, che non per caso sono gli unici, secondo Platone, a essere in grado di governare uno Stato giusto, equilibrato e pefetto.

La felicità per Aristotele

Aristotele (384-322 a.C.) nell’Etica nicomachea afferma che la felicità è eudaimonìa ed è il fine ultimo dell’agire umano. Tale fine è un bene superiore a tutti gli altri e va perseguito per se stesso. Per il filosofo la felicità autentica per tutti gli esseri viventi consiste nella realizzazione di sé, della propria natura, e nell’essere umano essa coincide con una vita condotta secondo ragione.

Tale felicità, pertanto, è riposta nella vita contemplativa o teoretica, ma non può prescindere dalla presenza di alcune condizioni favorevoli che nel IV secolo a.C. consistevano nel non essere indigenti, non essere ripugnanti nell’aspetto, non essere soli e non essere senza figli. Essa non prescinde nemmeno dal piacere, perché il bene non è assenza di piacere, né il piacere è in sé un male: esso è tale solo quando è eccessivo o è impedimento al pensiero, come avviene ad esempio nell’eccesso dei piaceri erotici o di quelli legati al cibo.

Aristotele nell’Etica aggiunge poi che il perseguimento della felicità individuale è strettamente connesso alla realizzazione del bene collettivo. Per il filosofo infatti «l’uomo è un animale sociale» e il suo bene e la sua felicità non possono essere estranei alla comunità politica, in cui la sua vera natura può realizzarsi. Non può esistere un’autentica felicità individuale contrapposta alla felicità collettiva e politica, così come un uomo che viva in solitudine non potrà mai realizzare completamente la propria natura e dirsi realmente felice.

Qual è il pensiero di Epicuro in merito alla felicità?

Nella Lettera sulla felicità rivolta a Meneceo, Epicuro (341 a.C.-270 a.C.) dice che la felicità si identifica con il piacere, che è strettamente unito alla virtù, ovvero alla capacità di individuare, grazie alla saggezza, quelle passioni e quei mali che ci tormentano, per potercene liberare.

Il vero piacere è quindi quello che elimina il dolore provocato dalla falsa conoscenza e dalla ricerca di cose superflue; perciò eliminando il bisogno, gli unici desideri, che possono essere soddisfatti per raggiungere la felicità, sono quelli naturali e necessari.

L’edonismo epicureo è legato a uno stile di vita austero e rigoroso, nel quale il piacere stesso è ricondotto alla sua essenzialità e naturalità, ovvero all’aponìa e all’atarassìa. Il dolore può essere attenuato soltanto mediante un uso corretto della ragione, perché essa è in grado di farci capire se il dolore è temporaneo e se ci condurrà alla morte, di cui non dobbiamo aver timore. La vera felicità non è frutto di un uso sfrenato dei piaceri, ma di un calcolo dei piaceri.

La felicità per Sant’Agostino

Il tema del cos’è la felicità assume una posizione centrale anche nell’etica di Sant’Agostino, poiché per il filosofo cristiano la volontà e l’amore hanno come fine la felicità.

Nella prospettiva della salvezza, la felicità per il cristiano si configura come lo stato di pienezza e di beatitudine che solo la visione diretta di Dio permette di conseguire. La beatitudine è lo stato di gioia, di perfetta felicità in cui si trovano per l’eternità coloro che, avendo guadagnato la salvezza, possono finalmente avere la visione di Dio.

Per Agostino d’Ippona i sensi non danno la felicità perché procurano inquietudine, ma ciò non vuol dire che la felicità abbandoni del tutto la carne. La concupiscenza è la volontà di staccarsi da Dio, ma nel cristianesimo il corpo ha un ruolo fondamentale: la resurrezione della carne nel cristianesimo è la più alta esaltazione della felicità all’interno della dimensione storica. La felicità non si conclude nella dimensione terrena perché, per il suo raggiungimento, lo sforzo e il lavoro del singolo non sono risolutivi. Soltanto la grazia divina, e non lo sforzo umano, può portare alla vera felicità, una felicità legata alla speranza nella vita eterna.

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