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Paradiso Canto 6. Riassunto e commento

Paradiso Canto 6 della Divina Commedia di Dante Alighieri riassunto e commento.

Cosa succede nel sesto canto del Paradiso?

Questi gli argomenti del Canto 6 Paradiso:

  • Giustiniano (vv. 1-33)
  • Storia e funzione dell’Impero (vv. 34-111)
  • Romeo di Villanova (vv. 112-142)

Paradiso Canto 6: Giustiniano (vv. 1-33)

Dante e Beatrice sono giunti nel secondo cielo, quello di Mercurio, che ospita le anime di coloro che in vita hanno operato giustamente.

Come tutti i VI Canti della Divina Commedia, anche questo affronta il tema politico per mezzo del lungo monologo di Giustiniano, imperatore dell’Impero romano d’Oriente dal 527 al 565 d.C.

Giustiniano spiega a Dante che dopo che Costantino ebbe trasferito nel 330 d.C. la capitale da Roma a Bisanzio (poi Costantinopoli e, oggi, Istanbul), l’aquila romana (l’insegna del potere imperiale) seguitò per oltre duecento anni a reggere da quella sede il governo del mondo. Passando di mano in mano per una lunga serie di sovrani, pervenne alla fine nelle sue, ed egli portò a termine il compito, ispirato da Dio, di riordinare la legislazione romana nel codice che da lui prende il nome (Corpus Iuris Civilis).

Prima però di dedicarsi a questo compito, Giustiniano aveva aderito all’eresia monofisita, secondo cui Gesù Cristo sarebbe stato esclusivamente una divinità, anziché uomo e Dio insieme come vuole la dottrina cattolica. Ma il «benedetto» Agapito (papa dal 533 al 536) lo persuase ad accogliere la dottrina ortodossa della duplice natura di Cristo e ora che è di fronte a Dio in Paradiso, Giustiniano vede distintamente che Cristo è insieme Dio e uomo, allo stesso modo in cui un uomo distingue verità razionali elementari e semplici.

E non appena si trovò a procedere in pieno accordo con la Chiesa – racconta Giustiniano a Dante – si dedicò interamente alla grande compilazione giuridica, affidando al generale Belisario la gestione militare e politica.

Canto sesto Paradiso: Storia e funzione dell’Impero (vv. 34-111)

Ora segue la parte centrale del monologo di Giustiniano. È la più ampia, eloquente e solenne. Traccia la storia mirabile di Roma, dalle origine leggendarie alle imprese di Giulio Cesare, alla missione di pace di Ottaviano Augusto, alla morte e resurrezione di Cristo sotto Tiberio, alla presa di Gerusalemme da parte di Tito e alla fondazione del Sacro Romano Impero da parte di Carlo Magno. Tutto è stato voluto da Dio.

Il monologo culmina con l’invettiva contro i Guelfi e i Ghibellini. Le lotte tra essi sono insensate e sciagurate: sono nel torto tanto i Guelfi, che sostengono il primato del potere temporale dei papi e Carlo II d’Angiò, quanto i Ghibellini, che sostengono l’Impero con spirito di parte, ignorando che la funzione primaria dell’Impero è di garantire la pace e il benessere degli uomini.

Paradiso Canto 6: Romeo di Villanova (vv. 112-142)

Giustiniano ora mostra a Dante quegli spiriti che sulla Terra operarono virtuosamente stimolati dall’ambizione della gloria e della fama. Tale ambizione ha reso meno eccelsa e meritoria la loro virtù. Ma, sebbene a questo minor merito corrisponda in essi un minor grado di beatitudine, sono paghi della sorte loro assegnata. È impossibile che in Paradiso le anime beate provino invidia per le anime poste in cieli più alti, o un qualunque altro tipo di risentimento.

Giustiniano rievoca la storia esemplare di uno di essi, Romeo di Villanova, ministro del conte di Provenza, Raimondo Berengario IV. Questi ebbe quattro figlie, che diventarono tutte mogli di sovrani (quindi regine) proprio per l’accorta opera diplomatica di Romeo.

Poi le parole invidiose degli altri cortigiani spinsero Raimondo a chiedere a Romeo il conto del suo operato. Romeo, uomo «giusto», gli diede più di quanto avesse ricevuto. Se ne andò via povero e vecchio. Se il mondo conoscesse l’atteggiamento nobile che egli ebbe mendicando di che vivere, lo loderebbe assai di più di quanto già non faccia.

Di sicuro Dante si identificava in Romeo di Villanova, uomo nobile e giusto che non meritava il proprio esilio così come lui stesso, costrettovi ingiustamente e a mendicare di che vivere.

 

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