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Il Crepuscolarismo: poeti e tematiche

Il termine Crepuscolarismo risale al critico e scrittore Giuseppe Antonio Borgese che nel 1910 affermò che la poesia italiana, dopo «la meravigliosa giornata lirica» che aveva compiuto la sua parabola da Parini a D’Annunzio, si stava spegnendo in un «mite e lunghissimo crepuscolo», espresso dal «poetare sfiancato e invertebrato» di un gruppo di lirici, il cui unico tema era «la torbida e limacciosa malinconia di non aver nulla da dire e da fare».

In seguito, come spesso avviene nel campo della critica letteraria, il termine Crepuscolarismo perse ogni connotazione negativa e fu usato per individuare e definire un clima, un atteggiamento o uno stato d’animo in cui, nel primo Novecento, si riconobbero poeti che ebbero una comune sensibilità e concezione della poesia, ma che non diedero vita a un movimento letterario fornito di un preciso programma, come invece fecero i futuristi; né parteciparono a una comune esperienza culturale, come accadde per i vociani.

I crepuscolari rifiutavano la poetica retorica, celebrativa di Carducci e l’esasperato estetismo di D’Annunzio. Ai contenuti aulici e sublimi del passato contrapposero le atmosfere grigie e malinconiche della vita quotidiana, le piccole cose di ogni giorno, anche quelle «di pessimo gusto», gli ambienti più banali e semplici, le abitudini e gli affetti di una vita monotona e provinciale.

In perfetta corrispondenza con questi temi ispiratori, la poesia crepuscolare fu pervasa da un’atmosfera dai toni malinconici, tristi, seppur attenuati da una garbata ironia, e da un linguaggio semplice e dimesso, che volutamente rifiutava qualsiasi preziosità stilistica.

Questo atteggiamento dei crepuscolari nasceva da una profonda delusione per la caduta dei grandi ideali storici e politici che avevano animato l’Ottocento e dall’insoddisfazione per la situazione incerta del loro tempo. È dunque per questo che essi si rifugiavano nella nostalgia del passato o dell’infanzia (considerata come un momento di felicità e di sicurezza) e aspiravano a una vita semplice, non dominata da slanci o passioni.

La solitudine, la struggente nostalgia di esperienze vitali destinate a rimanere ignote ed estranee, la sofferenza legata alla malattia e il desiderio di morte, il mondo delle piccole cose e degli affetti comuni, l’inutilità della poesia nella società moderna furono i temi principali dei componimenti di Sergio Corazzini, nato a Roma nel 1886 e morto giovanissimo di tisi nel 1907. La sua breve esistenza trascorse triste e angusta, oppressa dalle sofferenze del male inguaribile e dalle ristrettezze economiche, ma ardente e tenace fu in lui l’amore per la poesia che animò la sua fugace ma intensa attività letteraria, svolta tra il 1904 e il 1906.

Per il torinese Guido Gozzano (1883-1916), l’esponente più significativo del Crepuscolarismo, la poesia è una sorta di sostituto artificiale di quella vita che la malattia (anch’egli soffre di tisi) e la negatività del presente gli impediscono di vivere in pienezza: degradata e ridotta a merce, la letteratura può sopravvivere solo come finzione, collocandosi al di fuori della vita e della storia. Il carattere artificioso della poesia si accompagna a una serie di espedienti formali, come la mescolanza del lessico prezioso della tradizione con quello basso della parlata quotidiana, con finalità stranianti e ironiche. L’opera maggiore di Gozzano è la raccolta I colloqui (1911) e tra i componimenti più famosi e significativi de I colloqui ricordiamo La signorina Felicita, ritenuto il capolavoro di Gozzano: nel giorno di Santa Felicita, il poeta ripensa con nostalgia al semplice e delicato idillio amoroso da lui intrecciato in un paesino di montagna con una cara e buona ragazza, non bella e non colta, ma ricca di sensibilità e di gentilezza, la signorina Felicita, figlia di un signorotto del luogo. Nel poemetto Gozzano rievoca, in un tenero immaginario colloquio con la fanciulla, i momenti più importanti di quel breve e ingenuo idillio: momenti fatti di niente, eppure carichi di tenerezza e di incanto.

Il romagnolo Marino Moretti (1885-1979) privilegia le atmosfere chiuse e grigie di una provincia popolata da figure tristi e rassegnate, a  sottolineare la noia della vita.

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