L’ospitalità nell’antica Grecia (xenía) era un valore molto importante, non era un semplice atto di cortesia, come per noi, ma un dovere sacro. Il nostro detto “l’ospite è sacro” reca ancora una traccia di questa concezione.
Si riteneva che gli ospiti fossero protetti da Zeus, venerato come Xènios (“protettore degli stranieri e degli ospiti”, dal greco xènos, “ospite”). Per gli antichi Greci quindi l’accoglienza verso lo straniero era da considerarsi sacra e si manifestava con l’obbligo di accoglierlo nella propria casa (anche per più giorni), di lavarlo e nutrirlo, e dargli vesti pulite, se occorreva; solo in un secondo momento era lecito porgli domande sulla sua identità, sui motivi del suo viaggio e su quale era la sua destinazione.
Era poi buona norma offrire all’ospite un dono, che avrebbe dovuto restituire in seguito, quando sarebbe stato il suo turno di ospitare qualcuno proveniente da quei luoghi. I doni potevano consistere in tuniche, pepli, metalli preziosi, talenti, armi, oggetti di valore come coppe e crateri. Più l’ospite era gradito, stimato e di rango, più preziosi e importanti erano i doni. Riceverli era un onore, ma era anche sommamente onorevole essere munifici. Oltre ai doni poteva essere fornito anche un aiuto per la prosecuzione del viaggio, perché esso potesse continuare in sicurezza e tranquillità. Poteva trattarsi di aiuti di ogni tipo, come viveri o un mezzo di trasporto.
Ma non era solo il padrone di casa a dover rispettare determinate regole. L’ospite infatti era tenuto a mantenere un comportamento rispettoso nei confronti dei padroni di casa, dimostrandosi gentile e non invadente; inoltre egli aveva l’obbligo, qualora ce ne fosse stata l’occasione, di ricambiare l’ospitalità.
Il legame di amicizia che veniva così a crearsi si tramandava di generazione in generazione: si stabiliva un vincolo di ospitalità tra le famiglie, che poteva comprendere anche alleanze matrimoniali o militari. La violazione dell’ospitalità era considerata così grave da essere uno dei casi in cui la vendetta era permessa.
Perché l’ospitalità nell’antica Grecia era un dovere sacro?
I viaggi erano lunghi e pericolosi, le comunità isolate: chi viaggiava per mare o muovendosi per strade appena segnate doveva poter contare su aiuto e appoggio in terra straniera.
La sacralità dell’ospite si spiega inoltre con la necessità di proteggere la persona e gli averi dei viaggiatori, che erano generalmente aristocratici, impedendo che venissero catturati, uccisi o tenuti come ostaggio da famiglie rivali.
Infine, c’era la diffusa convinzione che, sotto le spoglie degli stranieri, si potesse celare un dio pronto a saggiare i comportamenti degli uomini. Trattare l’ospite con particolare attenzione era così un comportamento in uso per ingraziarsi gli dèi: la violazione delle leggi dell’ospitalità avrebbe potuto scatenare una terribile vendetta divina.
L’ospitalità nella mitologia greca
Il mito narra che Zeus si sia trasformato in viandante insieme a suo figlio Hermes e che abbia bussato a diverse case ottenendo solo insulti. Infine bussò a una catapecchia in cui ci viveva una coppia: Filemone e Bauci. I due coniugi li accolsero nella loro umile dimora, rispettando il dovere della sacralità dell’ospite. Quando Zeus, tramite un alluvione, distrusse tutto il villaggio, essi ebbero salva la vita e la loro casa fu trasformata in un tempio.
L’ospitalità nel mondo omerico
Nel mondo omerico sono molti gli episodi che aiutano a comprendere il concetto di ospitalità nell’antica Grecia.
In un episodio (Glauco e Diomede) tratto dal libro VI dell’Iliade è bene espresso il significato che aveva per i Greci l’ospitalità. Due guerrieri, il fortissimo greco Diomede e il giovane Glauco, alleato dei troiani, si stanno per affrontare in battaglia. Diomede vuole però sapere chi è quel giovane coraggioso che osa sfidarlo e scopre così che il nonno di Glauco è un antico ospite paterno: essi non possono quindi scontrarsi, ferirsi, forse uccidersi. Anzi, si stringono la mano e si scambiano le armature, rinnovando così il reciproco dono che aveva legato i loro antenati.
Nell’Odissea l’episodio più esemplare di ospitalità incondizionata si trova nei libri VI e VII: Nausicaa e suo padre Alcinoo, re dei Feaci, sono il simbolo dell’ospitalità. Nausicaa accoglie il naufrago Odisseo nel suo regno e lo invita a presentarsi al palazzo di suo padre, re Alcinoo. Prima, però, invita le ancelle a dar da mangiare e da bere all’uomo e a farlo lavare e vestire. Il re Alcinoo e la sua sposa, Arete, accolgono con tutti gli onori lo straniero, senza sapere chi sia, se un nobile, un mendicante, un naufrago, e ascoltano il racconto delle sventure che lo hanno condotto fino al loro regno. Poi gli assicurano che lo accompagneranno a Itaca, non prima di aver organizzato dei festeggiamenti e delle gare in suo onore e di avergli offerto doni di grandissimo valore.
Infine, ricordiamo quando Odisseo viene ospitato dal porcaro Eumeo nella sua capanna, nel momento in cui sbarca a Itaca nelle spoglie di mendicante (Odissea Libro XIV).