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Ulisse nell’Inferno di Dante, parafrasi e commento

Ulisse nell’Inferno di Dante Alighieri, Canto 26 (XXVI), vv. 85-142: riassunto, parafrasi e commento.

Ulisse nell’Inferno di Dante Alighieri, Canto 26 (XXVI), vv. 85-142: riassunto

Dante e Virgilio giungono nell’ottavo cerchio dell’Inferno. Qui si trovano i consiglieri di frode. Come in vita essi ingannarono gli altri con consigli falsi e interessati, alimentando le fiamme della discordia, così ora vagano senza pace avvolti in una fiamma che li nasconde alla vista.

Dante, incuriosito da una fiamma che, a differenza delle altre, ha due punte, chiede spiegazioni a Virgilio. Virgilio spiega che in essa sono racchiuse insieme le anime di Ulisse e Diomede, compagni di audaci imprese, ma autori anche di terribili inganni, come quello del cavallo di legno, che provocò la distruzione di Troia; il furto del Palladio (la statua di Atena, protettrice di Troia, custodita nella rocca della città); la scoperta di Achille travestito da donna per non andare in guerra.

Interrogato da Virgilio, Ulisse non racconta però le imprese che resero immortale la sua astuzia, ma la storia del suo ultimo viaggio, allorché lasciata l’isola della maga Circe e trovatosi con pochi compagni vecchi e stanchi, decise di varcare le Colonne d’Ercole (l’attuale Stretto di Gibilterra, che nell’antichità segnavano il confine del mondo conosciuto) per affrontare l’oceano ignoto.

Ulisse ricorda di aver navigato per cinque mesi e di essere poi giunto in vista di una terra: è l’isola del Purgatorio. Essa però gli sarà vietata da Dio, il quale farà inabissare la nave con un violento turbine; la nave si capovolgerà e tutti, miseramente, affogheranno.

Ulisse nell’Inferno di Dante, Canto XXVI, vv. 85-142: la parafrasi

La lingua più alta di quella fiamma che arde da tanto tempo cominciò a scuotersi mormorando proprio come la fiamma che è agitata dal vento; poi, la punta dimenando qua e là come fosse la lingua a parlare, fece uscire una voce e disse: «Quando mi allontanai da Circe, che mi trattenne più di un anno a Gaeta, prima che Enea la chiamasse così, né il dolce affetto per il figlio, né la pietà per il vecchio padre, né l’amore che avrebbe dovuto render felice Penelope poterono vincere dentro di me l’ardente desiderio, che io provai di conoscere a fondo il mondo, i vizi e le virtù dell’umanità; ma mi misi per il mare profondo e sconfinato con una sola nave e con il piccolo gruppo di compagni da cui non ero stato abbandonato.

Vidi l’una e l’altra sponda (del Mediterraneo) fino alla Spagna, fino al Marocco, l’isola dei Sardi (la Sardegna) e anche le altre circondate da quello stesso mare. Io e i miei compagni eravamo vecchi e stanchi quando giungemmo a quello stretto dove Ercole aveva posto i suoi confini, affinché l’uomo non andasse oltre; sul lato destro lasciai Siviglia, dall’altra parte avevo già lasciato Ceuta. “Fratelli”, dissi, “che attraverso centomila pericoli siete giunti al confine occidentale (del mondo), non vogliate negare a noi stessi, in questo breve periodo di vita che ci rimane, la possibilità di conoscere, seguendo il corso del sole, l’altro emisfero disabitato. Considerate la vostra origine: non foste creati per vivere come esseri bruti, ma per perseguire la virtù e la conoscenza”.

Con questo breve discorso io resi i miei compagni così desiderosi di intraprendere il viaggio, che poi a malapena avrei potuto trattenerli; e rivolta la poppa della nave verso levante, facemmo dei nostri remi le ali per quel viaggio folle, sempre avanzando dal lato sinistro verso sud-ovest. La notte già ci mostrava tutte le stelle dell’altro emisfero, mentre quelle del nostro erano così basse, che non emergevano dalla superficie del mare.

Cinque volte si era accesa e altrettante si era spenta la parte visibile della Luna, dal momento in cui ci eravamo avventurati in quella difficile impresa, quando ci apparve una montagna, scura per la distanza, che mi sembrò tanto alta quanto nessun’altra da me veduta. Noi ci rallegrammo e subito quella gioia si trasformò in pianto; perché da quella nuova terra nacque un turbine e colpì la prua della nave. Tre volte la fece girare con tutte le acque; alla quarta fece levare la poppa in su e la prua in giù secondo la volontà divina, fino a che il mare non fu richiuso sopra di noi».

Ulisse nell’Inferno di Dante, Canto XXVI, vv. 85-142: il commento

Come è facile intuire, Dante non si ispira all’Odissea di Omero, che si conclude con un felice ritorno a casa dell’eroe. Dante infatti ignorava senza dubbio i poemi omerici perché non potevano essere giunti a lui; si rifà invece ad altre leggende, diffuse al suo tempo, che narravano come la sete di conoscenza di Ulisse lo avesse spinto al punto di fargli dimenticare i suoi doveri e gli affetti familiari.

Questa immagine di Ulisse attraeva Dante per il suo coraggio e la sua forza e lo allontanava per la sua indifferenza morale.

Ulisse nell’Inferno di Dante è punito sì per le sue astute e intriganti azioni (il cavallo di Troia; il furto del Palladio; la scoperta di Achille travestito da donna), ma appare soprattutto il simbolo del desiderio umano di affrontare l’ignoto, di allargare gli orizzonti della conoscenza. Tuttavia, poiché la brama di Ulisse di seguire «virtute e canoscenza» non è sorretta dalla luce della Grazia, la sua impresa altro non è che un «folle volo», cioè assurda e quindi destinata a naufragare.

Nella sua Commedia, Dante rievoca in più di un luogo le imprese di Ulisse, un personaggio che dominava certamente la sua immaginazione. In particolare, il fallimento del viaggio oltre le Colonne d’Ercole, narrato da Ulisse nell’Inferno di Dante (Canto XXVI, vv. 85-142) è ricordato una volta nel Purgatorio (Canto I, vv. 130-132) e una nel Paradiso (Canto XXVII, vv. 82-83).

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